Mio nonno fece un viaggio memorabile nel lontano 1918, partì in treno da qualche parte qui nel nord, dal Veneto, ed arrivò in un paesino della Sicilia.
Mi parlava alcune volte di ricordi che gli riaffioravano alla mente su quel viaggio, frasi, motti sentiti nei dialetti locali, aneddoti che sembravano venire da paesi così lontani che parevano arrivare dall'altra parte del mondo. Li ho tutti dimenticati. Solo una frase me la ricordo: a pizza ch' a pummarola in goppa. E, a me bambino, sembrò una frase così strana e piena di chissà quali significati che per giorni mi girò nella testa, come fosse una formula magica.
Era appena finita la guerra. Mio nonno aveva militato sui campi di battaglia come infermiere e portaferiti.
Nella grande guerra c'erano ancora, in mezzo alle immani carneficine che si consumavano tra le trincee del Trentino, strani rimasugli di cavalleria guerresca, che affondavano le loro radici nelle grandi battaglie dell' ottocento.
Finito un assalto, quasi sempre alla baionetta, con un tentativo di conquista della trincea nemica, rimanevano sul campo centinaia di morti e morenti con pancie squarciate, mutilati. Ragazzi rantolanti o che urlavano chiamando la mamma in tutti i dialetti d'Italia per questa parte e in tutte le lingue della Mitteleuropa per quanto riguardava la parte avversaria.
A questo punto tutto si fermava come per incanto, in un tempo irreale.
Per un tacito accordo tra le postazioni nemiche, che si erano scannate fino ad un momento prima, dalle trincee uscivano delle figure che sembravano provenire da un altro mondo: coppie di uomini in camice bianco con barella che passando tra le file dei caduti cercavano di capire quale di quei moribondi valesse la pena di caricare e portare nell'infermeria della trincea, dove, medici senza mezzi, avrebbero cercato di ricucirli alla bellemeglio.
Mio nonno era comandato a questo lavoro, e chissà quanto la sua vita era stata segnata dall'aver visto tanti ragazzi in quelle condizioni, aver visto tante inutili sofferenze e aver fatto scelte che era costretto a prendere anche contro la sua coscienza.
Mi raccontava che in questi giri sui campi di battaglia a raccogliere feriti, capitava spesso di incrociare qualche barella nemica e molte volte tra i colleghi di campo avverso venivano scambiati convenevoli, saluti e qualche offerta di sigarette.
Queste manifestazioni di cameratismo, avvenivano, in barba alle disposizioni dettate dai superiori, che non vedevano di buon occhio, questi scambi di cortesia i quali potevano, corrompere il sano odio, che doveva normalmente scorrere tra le schiere avverse.
Torniamo al viaggio.
Appena finita la guerra, al momento di tornare a casa, a mio nonno venne affidata un'ultima corvé. Gli venne accollato un povero cristo, un ometto siciliano, impazzito tra il fango delle trincee sulle aspre doline del Carso.
Era stato in un manicomio militare per un certo periodo, ma finita la guerra, gli ufficiali medici decisero che valeva la pena rimandarlo al suo paese in Sicilia. Erano già pochi quelli che avevano la fortuna di tornare, dopo la carneficina e quel povero diavolo erano pur sempre due braccia, ancora utili nei lavori agricoli della sua terra.
E mio nonno, che era salito su un treno per la prima volta, quando lo spedirono al fronte e che, aveva visto, solo le poche case delle sue campagne brianzole, oltre ai luoghi che, aveva avuto la fortuna di vedere, grazie alla guerra; prese sottobraccio il pazzo, che era comunque un buon diavolo e non dava fastidio a nessuno, salì sul convoglio comandato e andò verso le sconosciute terre del sud.
Fu un viaggio lunghissimo e memorabile. Passò per Bologna e Firenze. Ma non videro gran che i due viaggiatori, dato che nelle stazioni dovevano dipendere dalle postazioni militari di quelle, sia per le vettovaglie che per il dormire.
Non si può comunque dimenticare che grande deve essere stata l'emozione, nel vedere, all'ingresso della stazione il cartello di "Roma" scritto a caratteri cubitali.
Solo di Napoli era rimasto un ricordo che mio nonno mi aveva tramandato, quel: a pizza ch'a pummarola in goppa.
Niente mi ha raccontato del resto del viaggio, almeno fino all'arrivo nel paesello del povero matto. Era questo paesello arroccato, come lo sono tanti piccoli paesi del sud, su una collina un po' distante dalla stazione dove loro erano giunti.
Qui, trovarono ad aspettarli, alcuni carretti parati a festa, con mezzo paese che salutava il ritorno del concittadino, non si sa come, dato per morto fino a pochi giorni prima. Poi una processione festante, salì la strada che menava al paesello, e qui, altra gente attendeva il corteo, festante più della prima. Mio nonno venne salutato e baciato come fosse stato il salvatore del giovane, sul campo di battaglia. Nessuno diede il minimo peso alla menomazione del folle, anzi, tutti erano felici e contenti di vederlo tutto intero. Parenti ed amici facevano a gara nell'offrire da bere, nell'invitare in casa mio nonno a mangiate che sono rimaste indelebili nella sua memoria.
Lui avrebbe dovuto ritornare, col primo treno, come gli avevano comandato, il giorno dopo. Venne costretto invece, a furor di popolo a trattenersi alcuni giorni e gli riuscì anche difficile partire, perché, non lo volevano più lasciare andare.
E mio nonno tornò dunque dalla guerra come infermiere. Riprese a fare il contadino, lavoro che non gli piaceva affatto, poi trovò un posto come operaio in una industria tessile, era molto benvoluto, fino a quando venne licenziato con ignominia, perché non aveva voluto prendere la tessera del fascio. Fu costretto così, a riprendere il magro lavoro del contadino sulla poca terra che aveva.
Il mestiere, se così si può chiamare, che comunque gli dava più soddisfazioni e nel quale dava tutto sè stesso era la sua vecchia mansione di infermiere. Quando in paese occorreva un medico, che non sempre era a portata di mano, si correva da mio nonno.
Ma il suo compito principale, come infermiere non ufficiale, era quella di fare le iniezioni a tutti coloro che ne avevano bisogno. Per questo tutti lo conoscevano, anche perché sapeva fare le iniezioni condendole con sano intrattenimento, e in ogni casa portava ben altro che i soli aghi nelle chiappe dei malati.
Me lo ricordo, con quanta cura, teneva la sua scatola di bachelite contenente i ferri del mestiere.
Allora le siringhe erano fatte di vetro, divise in due parti: stantuffo e il resto, con aghi che erano sempre quelli, e mio nonno più volte al giorno poneva siringhe ed aghi nell'alcool e ve le lasciava a lungo per disinfettare.
Ogni volta, che si sedeva al tavolo della cucina per accudire ai suoi arnesi, noi bambini, stavamo a guardarlo in religioso silenzio, come si segue, un sacerdote intento ai suoi sacri uffizi, sull'altare. Eravamo testimoni, di un rito sacrale, che dopo la lavatura nell’alcool, continuava con la prova dello scorrimento del cilindro di vetro nella sua sede e la sistemazione successiva delle siringhe nella scatola di bachelite, su un letto di cotone idrofilo e che si concludeva con l'infilare un sottile filo di metallo, nel buchino degli aghi affinché, con il tempo e con l'uso, non si otturassero, prima di riporli con delicatezza, sul loro letto candido, accanto alle siringhe.
Alla fine mio nonno, chiudeva la scatola e la posava nell'angolo sinistro del suo cassetto, luogo sacro e inaccessibile per noi bambini, come un tabernacolo in chiesa, che chiudeva accuratamente a chiave.
Quando, nei primi anni cinquanta, era arrivata dall'America la penicillina, mio nonno era stato investito ufficialmente, con un breve corso, dal medico del paese come l'unico in grado, oltre a lui naturalmente, di fare iniezioni con questo nuovo medicamento.
L'iniezione era alquanto laboriosa. Si trattava di inserire dell'acqua distillata con l'ago della siringa, attraverso una membrana di gomma, in una boccetta contenente la polvere ricavata dalla muffa. Bisognava poi agitare la boccetta lungamente fino a far sciogliere accuratamente la polvere. Con la siringa andava poi, di nuovo, aspirato il liquido attraverso la gomma, da iniettare al paziente.
Poteva succedere, se l'operazione non veniva eseguita a regola d'arte, che l'iniezione fatta con questo procedimento, potesse degenerare e causare gravi problemi alla natica del malcapitato.
Mio nonno, in tutti gli anni che aveva operato in questo campo, si vantava, che nessun caso del genere gli era mai capitato.
Il medico stesso, non si capacitava, dato che, di casi del genere, a lui, ne erano capitati diversi. Spesse volte, dirottava pazienti particolari, direttamente a mio nonno, per le iniezioni del caso.
Ogni sera, mio nonno, prendeva la sua scatola dal cassetto e dopo averla messa nelle tasche sotto il tabarro, iniziava il suo giro di punture.
I bambini, che spesso erano quelli che più avevano bisogno della sua opera, lo odiavano e lo amavano al contempo.
Lo amavano, perché sapevano che Faustino ne aveva sempre una nuova pronta per loro. Doveva sì fargli del male con l'iniezione, ma il nonno ne escogitava sempre una delle sue per divertirli e per far sì che non lo vedessero, come quello, che gli portava solo del dolore.
Spesso, tirava fuori la sua armonica a bocca e suonava per i piccoli malati, oppure raccontava le sue panzane, come solo lui le sapeva raccontare lasciando a bocca aperta, non solo il malato, ma tutta la famiglia affamata di intrattenimento in quegli anni ancora senza radio e televisione. A volte invece aveva giocattoli che si faceva prestare da noi nipoti, giocattoli avuti in regalo di solito, nella ricorrenza dei Re Magi, e questi servivano a creare quello spirito di novità che portava a sollevare il morale a quei suoi piccoli pazienti.
Mi ricordo, una piccola littorina di latta, a molla, che correva sui binari, tutta dipinta a colori vivaci a cui mio nonno fece fare, in quei mesi, il giro di tutte le case di Torricella.
E meglio ancora, mi ricordo due ballerini di tolla anche questi, che caricati a molla, ballavano e facevano il giro di tutto il tavolo: lui vestito di nero e lei con un' abito candido, ampio e lungo, forse di pizzo. Facevano larghi giri di valzer, come se si trovassero nel salone del Gattopardo. Mio nonno, li tirava fuori di tasca, come fosse stato un prestigiatore, quando il bimbetto, vedendolo apparire sull' uscio e rendendosi conto, cosa questa apparizione rappresentasse, si metteva a piangere disperato, ciò serviva a sciogliere la tensione e a permettere a mio nonno di portare a termine le sue funzioni mentre il bimbo, distratto dal nuovo giocattolo, si rasserenava.
Non so, come riuscisse ogni volta, a farsi restituire il balocco, per potere poi riproporlo di lì a pochi momenti, al paziente successivo.
Quello che non ho mai capito, è quanto e come si facesse pagare questi servizi che faceva. Ricordo solo che, mia nonna, si lamentava spesso e volentieri nel vederlo uscire, ad ogni ora del giorno e spesso anche della notte, con la scatoletta delle siringhe in tasca. Si lamentava perché, non gliene veniva un benché minimo utile. Ma qualche volta tornava con qualche pagamento in natura, che poteva essere qualche uovo o addirittura una gallina o un coniglio nelle feste principali dell'anno, regali che venivano sicuramente da famiglie di pazienti di lunghe o croniche malattie.
Mio nonno era buono, detta così la cosa può sembrare un niente, una banalità. Ma è nella normalità della parola stessa che sta il significato di cosa io intendo, era buono, buono e basta.
A detta di molti non era solo buono, era anche un galantuomo. Questa è una parola che da molto tempo non si usa più, forse perché, non esistono ormai più uomini, che possono avere il privilegio di vedersela attribuire.
autore: Enrico Sprea